venerdì 3 settembre 2021

 MAMMA LI TURCHI FUNZIONA SEMPRE






Perché ho la sensazione che tra il portarci a casa un no-vax e un cannibale oggi sceglieremmo il cannibale?
Da dove comincio… Comincio?
Beh, quando non va né su né giù, due dita in gola (qualcuno consiglia anche uno nel culo).
 
Dunque: volevo dire che conosco sorelle che non si parlano più tra di loro perché una è vaccinata e l’altra no.
Conosco un signore per bene, di sinistra (ma mica quella fighetta), piuttosto colto, a cui non manca l’intelligenza, che ha detto che dovremmo fare dei campi di concentramento per i no-vax... su base volontaria per carità! perché mica siamo i nazisti. Solo dei posti in cui si possano concentrare.
Conosco uno che dice che qui non decide più la politica, qui comanda la scienza e la medicina, e se non ci siamo abituati, peggio per noi.
C’è gente, ma questo lo sapete, che dice che chi non si vaccina debba essere escluso dalle cure mediche.
E quando parole di questo genere vengono pronunciate, un pezzo se ne va, come Fantasia divorata dal Nulla, si sgretola per non tornare mai più com’era.
 
Non è che, dico, siamo un po’ al punto che se siamo brave persone, se teniamo al bene comune (che come dicevo altrove è un aggeggino facile facile da mettersi in tasca), se non siamo dei brutti figli di puttana, ci deve piacere anche un po’ questo governo? Che in fondo in fondo, diciamocelo con una strizzatina d’occhio, non sarà tenero, non sarà comodo, ma sta facendo quel che va fatto, diamine.
Non è che siamo un po’ arrivati al punto che il solo dire che questa demonizzazione del dissenso sia leggerissimamente funzionale alla costruzione di un consenso, il solo ipotizzarlo è complottismo puro?
Siamo per caso un po’ al punto che se poco poco non ci piace una decisione amministrativa siamo antiscientifici?
 
Ma niente, io sono un po' cannibale e penso che su certi aspetti ci si debba ancora interrogare con categorie di pensiero valide anche in politica, in filosofia, in sociologia, in tutti i domini di competenza scientifica che costruiscono la nostra cultura, e che non appartengono per forza solo alla medicina. Non credo di essere antiscientifica.
 
Non credo neppure, e qui la sparo grossa, che tutte le declinazioni della linea no-vax siano antiscientifiche. Booooom!
Eppure è così, mi spiace per chi ha un bisogno disperato di squartare la realtà con l’accetta, ma le posizioni antivacciniste non sono tutte uguali e non sono tutte ignoranti (chissà se si può dire lo stesso della moltitudine degli Adoratori del vaccino).
Oh, sia chiaro, io sono vaccinata eeeehhhh???? No, perché qui c’è gente che poi non ti saluta più. Lo sono e sono convinta che i vaccini siano una delle meraviglie della medicina, guarda un po’.
Peraltro, se proprio vogliamo essere puntigliosi, io sarei una delle più nerborute sfottitrici del no-vaxismo della prima ora, molto, ma moooolto pre-covid.
Quindi non mi rompete il cazzo, detto in amicizia, ché ho un pedigree da paladina della scienza che ve lo sognate, sbavante folla inferocita.
 
Solo che questo atteggiamento che credete tanto civile, tanto onorevole, tanto necessario in difesa della scienza, non è per nulla scientifico, è anzi uno sfregio alla scienza, nientemeno. Sorpresa!
 
E non è neanche un gran segno di cultura scientifica che fior di medici si prestino a questa strumentalizzazione, contribuendo alla costruzione di un pensiero dogmatico, che passa per svariate confusioni di piani tra le sfere di competenza, svariate interferenze negli ambiti in cui giuristi e filosofi possono essere più utili, per approdare ad altrettanto svariate costellazioni di verità definitive e stigmatizzazioni similmente paradigmatiche. Contribuendo insomma alla formazione di una cappa ideologica dalla quale ormai il pensiero è viziato, tanto da suggerire agli organi di comunicazione la formidabile campagna di delegittimazione di qualsiasi posizionamento non allineato agli indirizzi governativi, perpetrata con uno zelo che non vedevamo dai tempi del Berlusconi.

Questa atmosfera frizzantina si nutre di emotività, non di scienza, questo sia ben chiaro, e ha la sua manovalanza in tutto un arsenale di argomenti da disco rotto che vanno proprio a fare leva sulle emozioni (le chiusure! i morti!) e sulla più elementare strategia che ne consegue, cioè la costruzione di un nemico (l’egoismo! i cattivi cittadini!), fino all’appello intrinseco all’esclusione e al disprezzo, insomma il quotidiano addestramento al conflitto che prende le mosse dal biasimo, passando per la riprovazione sociale, e giunge infine all’ostracismo.
(Mamma li Turchi ha sempre funzionato).
 
Da qui al sostenere impunemente che le altre scienze debbano tacere il passo è breve, e in una manciata di giorni Vattimo e Cacciari diventano all’improvviso due inutili coglioni senza diritto di parola, in un baleno si pone la pretesa che le posizioni politiche si spengano in nome della scienza, che solo a sentirla questa roba uno scienziato autentico avrebbe un mancamento.
 
E fin quando opporsi a questo genere di deriva politica sarà considerato un atteggiamento antiscientifico, o non civile, o sabotatore, o tutto il diavolo che volete, sarà esattamente come dire che i comunisti mangiano i bambini, tale e quale.

Vado a divorare un otorinolaringoiatra, ciao.

sabato 13 marzo 2021

 OLOCAUSTO




Il sogno da cui mi sono risvegliata solo poche ore fa già mi sembra meno vero.

 

Ero invitata, insieme a un paio di cari amici, ad assistere come spettatrice di una cerimonia in un teatro con la platea digradante verso il basso. Nella cerimonia, un gruppo di una dozzina di amici, molto stretti e molto uniti tra loro, decideva di farsi cremare, così com’erano, vivi, seppur previa anestesia, che avrebbe dovuto garantire loro di non soffrire mentre venivano arsi vivi.

Si mettevano in fila, in attesa del proprio turno per ricevere il trattamento che li avrebbe visti ben accomodati nelle bare già disposte sul palco. In fila, si offrivano, con un atteggiamento tra il patibolare e l’eroico, ma comunque ben disposto. Lo facevano in vista di una spirituale quanto illusoria riunione in un altrove, o in un altro tempo.

Al momento delle fiamme io, non potendo sopportare di assistere, uscivo, attaccandomi a un cellulare che consultavo compulsivamente in cerca di avvisi, notizie dal mondo, segnali da persone. Ma il mio cellulare era farlocco, era un surrogato di cellulare, non funzionava e non mandava alcuna comunicazione.

Al mio rientro in teatro, una pioggia di lapilli ci sovrastava, come una stellata, e un odore di bruciato evocava gli assenti.

 

L'interpretazione di questo sogno è, ovviamente, paradigmatica, un capolavoro di didascalia: il sacrificio a cui ci consegniamo, e che solo illusoriamente ci ripagherà, è evidentemente una mia preoccupazione, mi appare come un olocausto che ci porta a cauterizzare le nostre relazioni, in vista di una riunione mitica, spostata in un'altra dimensione.

 

Una mia preoccupazione, poi, volendo, è l'ennesima delegittimazione che come popolo abbiamo subito di recente, con il “cambio di passo”. A me il cambio di passo fa risuonare quel disporsi in fila, insieme, gli ospiti del mio sogno che quasi si immettono, come su una specie di tapis roulant, su un percorso che li porta. Li porta, punto.

 

Ma fa lo stesso, perché quello che voglio dire non è questo. Non è questo perché so bene che molti penseranno che ho perso la trebisonda a parlare di olocausto. È vero, ho perso la trebisonda. Dò i numeri. Sono pazza da legare. Batto i coperchi. La mia mente è rapita. Mi metteranno presto in una bella stanza con i materassi alle pareti.

Però il mio sogno è reale. Ha occupato un posto in questo mondo.

Anche la mia vita, le mie relazioni, occupano un posto in questo mondo.

Molti hanno cominciato a credere che la socialità sia un fatto edonistico. E a me quasi viene voglia di gridare “I pazzi siete voi!” aggiudicandomi una bella camicia con le maniche lunghe lunghe.

 

Voglio andare a una grigliata. È piacevole? No.

Bisogna fare conversazione, bevo troppo, per essere più divertente, ho mal di testa. È piacevole? No.

Voglio fare un aperitivo. È piacevole? No.

Ci sono le persone. Bisogna decidere che cosa fare dopo. Tutti hanno problemi, e io non dovrei essere qui, ho da lavorare, che senso di colpa. È piacevole? No.

Voglio portare mia figlia in giro, in viaggio. È piacevole? No. Devo fare un piano, e a lei non interessano le cose che interessano me. Devo lottare. Devo camminare. Magari piove. È piacevole? No.

È un fatto, lo sanno tutti, le relazioni sono un impegno, il più faticoso di tutti, nessuno ti capisce, meglio il gatto, ma neppure quello, ci vuole un eremo.

Non è certo un piacere. Eppure ne ho bisogno.

 

Allora, se nonostante questo bisogno, nel mio subconscio ci mettiamo in fila e ci offriamo all’olocausto, il mio povero subconscio è un dato che andrebbe messo tra i dati, nel brodo dell’inconscio.

martedì 14 aprile 2020

INCONTRO COL VUOTO

 



Da quando tutto questo è cominciato, ho fatto molte cose, e molte cose ho smesso di farle. Entrambe le azioni le desideravo da tempo.

Poco fa sono andata sul balcone e ho guardato la mia città, il pensiero immediato è stato che non abbiamo più una città. In realtà dall’alto della mia mansarda vedo solo tetti, cupole e campanili, salvo uno spicchio di piazza Castello, cose belle insomma. Sono fortunata.
Devo dire che, disabitate e inerti, sembrano meno belle. Per me non c’è niente di vero nell’idea che l’uomo imbruttisca il pianeta, al contrario. Senza uno spettatore attivo e cosciente vorrei sapere che cos’è la bellezza.

Il disabitato mi provoca una riflessione che non ho voglia di fare, è il vuoto che mi vuole ferma a guardar dentro la sua bocca. Ma non ti ci puoi buttare dentro... Un desiderio lontano sussurra “Magari!” E invece, mamma, devi ancora insegnare a vivere, proprio tu, che hai lasciato l’insegnamento perché non ti sentivi capace di insegnare un bel niente, di dire “sì”, “no”, “è così”, “è cosà”.

E poi mi è venuta in mente una cosa che una volta un saggio mi chiese: “Se tu perdessi tutte le tue funzioni, resterebbe qualcosa di te?” E così avevo intrapreso un cammino che mi portava quasi sempre allo stesso dibattimento, capii che sarebbe stata molto dura andare a vedere che cosa di me sarebbe rimasto al di sotto delle mie funzioni.

Eppure, a pensare che sì, che rimarrebbe qualcosa di me, mi prende un imprevisto sconforto… Non basta dunque gettare via tutto quello che sei per sbarazzarti di te?

Anche adesso, se ci penso, mentre guardo la città inerte, intuisco che è rimasto qualcosa di noi: è rimasto tutto, ahimè.
Questa di non poterci esaurire nelle nostre funzioni, di essere qualcos’altro, qualcosa di inestinguibile, è una tragica responsabilità.
Se fosse un maledetto specchio in cui osservarsi in eterno? Forse temo che quel qualcosa sia l’inferno.

Io sono una privilegiata, posso permettermi questa quarantena. Ho una bella casa grande e luminosa. Ho un compagno gentile, che mai una volta mi ha sganciato addosso le sue frustrazioni, non in questi giorni, non in questi anni. Ho una figlia che spande meraviglia e che è grandicella abbastanza da non dover essere intrattenuta con giochi a me alieni. Ho un conto in banca che può ancora sostenermi. Non ingrasso troppo (non troppo eh?) pur mangiando incredibili dosi di incredibili grassi e zuccheri. Ho amici, un cane tipo soprammobile, e tecnologia in esubero. Ho libri, ho film, ho interessi, ho serenità e allegria. Ho anche il pensiero, con cui torturarmi se casomai dovessi annoiarmi. Ho tigna per i giorni tignosi e dialettica per esprimerla. Non mi manca nulla… beh, mi mancano gli amici, ma così sia.

Non mi interessa più dei morti, della scuola, dei soldi che mi devono, dei lavori saltati, del cielo. E mi sembra impossibile che per me sia stato tanto importante far bene un lavoro, insegnare qualcosa di utile a mia figlia, scrivere, leggere, arrabbiarmi per qualche sciocchezza, gettare qualche seme nel mondo, lavare il pavimento.

Il duello che credevo si giocasse era l’incontro col vuoto dentro, un vecchio nemico. Era già lì, è stato lì sempre, fin dall’adolescenza, in certe lettere alle amiche, piene dello sgomento di guardarci dentro…
E invece, io non mi spiego ancora come, non c’era nessun vuoto dentro, io sto bene qui chiusa al sicuro con me stessa: forse questo nulla, questo tempo di cristallo e questa inerzia sono per me il guscio perfetto, la barriera contro tutte le responsabilità, la tana in cui poter restare nascosta e difesa.

In me convivono due vulgate di me: in quella più nobile si dice che avevo ben arredato la mia anima, e che il silenzio mi ha colta preparata, tutto ciò di cui ho bisogno è qui. Nella vulgata più misera, beh, io ho paura di tornare allo scoperto.
Quello che so è che ciò che davvero mi portava via, che davvero mi faceva uscire pazza, ciò che nel profondo mi minacciava giorno e notte e mi scavava ulcere nel cervello, era vedere il tempo al galoppo, assistere e anzi partecipare al furoreggiare di attività in cui non credevo, senza capire mai dove cazzo tutti corressimo. Questo mi stremava, mi devastava.
Ma allora il vuoto che ho sempre avuto dentro era fuori. Erano gli altri, erano le cose, era il movimento di pianeti lungo orbite a me incomprensibili!

Guardo dalla finestra, fuori e dentro sono finalmente uguali.
Nel frattempo, col passare delle settimane, si alternano sopra la mia testa varie fasi di scontento, come correnti fredde. I miei timori e i discorsi del cervello girano sui problemi economici, sulla coesione sociale, sulla resistenza dello Stato… sono pensieri e discorsi cha stanno come totem.
Il totem di cui più si parla negli ultimi giorni è la “strategia”. E di nuovo lo sento come un ingombro, dura un attimo, domani ne inventeremo un altro. Sento che ci focalizziamo continuamente sui nostri totem, che rivestono ogni importanza per pochi giorni, ma di cui a me forse non frega nulla da sempre.

Rivolgo lo sguardo al mio cupio dissolvi, ben sapendo che è un modo meraviglioso per dire che me infischio.
Mi dispiace, non riesco a desiderare nuovi totem, in tutto simili a quelli vecchi, non riesco a desiderare che la vita torni quella di prima, che il mondo torni a mettermi le mani addosso per strattonarmi in ogni direzione dilaniandomi e oscurandomi la vista.

Se mi lasciassi andare a una protesta, tremo allidea che essa venga digerita dal desiderio naturale di tornare indietro. Io non voglio.
Non voglio che torni il mio lavoro malpagato e frustrante, non voglio che tornino gli orari e la stanchezza come un macigno, non voglio che torni la scuola, da smontare quotidianamente, non voglio tornare a saltare il pranzo, non voglio che tornino le cene di corsa e urlate, non voglio che torni lo smog, non voglio che tornino le maschere.
Per quanto ne so io, meglio le mascherine.

Non voglio che tornino queste cose perché sono queste il mio vuoto alla bocca dello stomaco, la mia noia lancinante, sono queste lo specchio infernale in cui guardarsi per sempre, sono esse il nulla e non il contrario.

Perché nella giostra dei totem, avete abbandonato quello della “grande possibilità”?

venerdì 20 marzo 2020

LA LIBERTÀ DEL CANE




Mi capita di avere una gran voglia di andare a trovare il mio amico, fare quei due isolati e mezzo e salire su da lui. Ho voglia di fare cose insieme, e di rifare la vecchia vita, anche se non era rose e fiori.
Mi sento come Samvise Gangee e Pipino e quelli lì, quando ripensano alla Contea. Ma la mia vita non era la Contea, per nulla. Intanto c’era pochissimo verde, quasi niente, e certo non ci veniva a trovare uno come Gandalf.

Non c’era neanche tanto l’avventura, né la strenua lotta contro il male a dare un senso a tutto. Eppure oggi non posso correre per quei due isolati e mezzo. Perché?
Paranoia? Senso civico? Esercito? Salute pubblica? Paura?
Perché questa nuova realtà ci sembra una deformazione dell’unica possibile realtà, la nostra vecchia realtà?
E perché ancora ci inganniamo durante il giorno, fingendo che sia tutto sotto controllo (se farò così, andrà così e così) e la notte ci svegliamo in un mondo incommensurabilmente sconosciuto? Gli assalti dell’angoscia, il boccone preparato di giorno che di notte fa assimilare tutto di colpo e a forza. Tutto. Tutto lo strano, tutto il pericolo, tutta la nostalgia, tutta la paura. Tutta la distanza tra la Contea e Mordor.

Si piange. Si piange al pensiero delle bare sui camion. Si piange al pensiero dell’esercito.
Oggi ho portato mia figlia da suo padre, abbiamo camminato fino a casa sua. Da oggi e per una settimana starà con lui.
È che i bambini chiedono attenzione, per quanto youtube tu possa fargli vedere, dovrai sempre cucinargli due-tre pasti e fare le altre cosette… È che i bambini normalizzano.

Poi al tg Mentana ha detto che si parla concretamente di inasprire le misure, di esercito. Non è che sia facile per noi separati. Anche se si è detto fin da subito che non si poteva toccare quel diritto, beh, i soldati non sono lì per ragionare insieme. Ti vengono su paure nuove.

A me suonano mitomani i toni da tregenda, da diario di guerra, con cui ciascuno narra la propria quotidianità modificata, il patetismo con cui si cerca di raccontarla, eppure lo capisco, perché lo so che siamo pieni di voglia di avventura, lo so che il cuore vede, sente e pensa da sé, perché lo vedo quel sole sprecato lì sulle strade, perché lo so che siamo tutti dei fingitori.

A me succede che quella quotidianità di prima non mi manchi poi particolarmente, mi mancano alcune persone, pochissime in modo autentico. Mi manca l’allegria “illogica” di Gaber dietro la curva. Ma soprattutto mi manca il pilota automatico. Vorrei non essere svegliata ogni notte dallo stesso visitatore curioso, che viene a chiedermi “Allora, che cosa ne pensi? E dentro, che succede?”

Ho la nostalgia per lo stato di preoccupazione minore in cui vivevo prima. Non mi manca uscire per andare dal mio amico, mi manca che lui possa aprirmi la porta. E questa sconfitta la dobbiamo subire per forza.

Avete ragione tutti, e non credo che nessuno abbia mai davvero pensato che la colpa sia di chi corre al parco. Nessuno l’ha mai pensato, ma nessuno creda di sapere che cos'è la libertà, perché la libertà di correre è la libertà del cane.
La libertà di scegliere, invece...
Se ci sono colpe, sono precedenti, e di portata maggiore, ma lo stesso qui ciascuno deve fare la propria parte, e questa qui paradossale, di non farti domande, non interpretare, non staccare il tuo profilo da quello dello Stato, è comunque la parte che ti tocca.
Senza patriottismo, non saprei dove trovarne in me neppure se una nazione nemica ci invadesse con i carrarmati. Ma l’appartenenza, quella ce l’abbiamo tutti, ne è prova la passione per il calcio, per il mandarsi affanculo l’un l’altro. La polarizzazione politica è appartenenza, niente più. Allora, dove la metto adesso l'appartenenza? la consegno allo Stato o me la riprendo e la tengo per me?

Io ho paura della polizia, non voglio che comandi sotto casa mia. Ma so anche di avere introiettato molto presto, troppo presto, che libertà è responsabilità… Come faccio però a dire “Guarda che quella di andare a spasso non è libertà”… Come posso? Vorrei dire che la libertà è dentro, come facevo con mia figlia su per le scale del primo giorno di scuola elementare… Ma lei rispondeva “Mamma, non hai capito”, e ripeteva: “Non ho più la libertà”. Come se io davvero non avessi sentito. Come se non vedessi la sua Contea di primavera perenne.
È che a parlarne, poi ci si inciampa nelle molte braccia della libertà stessa.

Non è davvero il caso di cercare colpe e colpevoli, anche perché poi sei costretto, di notte, a veder sfumare questa nettezza, ti vedi lì a rimpiangere, a immedesimarti… quel treno l’avresti preso anche tu? Tremebondo e sudaticcio, ti senti così incapace di capire, di abbracciare una qualche visione.
Forse la mia idea di libertà è misera? Forse non è reale? Forse, se non potessi più raggiungere mia figlia, la mia idea di libertà si rivolterebbe da dentro a fuori come un guanto, e tra la mia e la libertà del cane non ci sarebbe più alcuna differenza.

Ma tutto questo orientare il discorso su libertà, democrazia, dittatura, stato di polizia, la mano nell’ombra… ok, fermiamoci. Tutto questo discorso, ancora una volta, dovrebbe passare per canali più sottili, e senza appartenenza, questa volta. Dovrebbe passare da una riflessione storica.

Io mi aggrappo solo a questa idea, che tra una dittatura e uno Stato che esercita misure estreme di coercizione temporaneamente ed eccezionalmente c’è di mezzo una Costituzione. Devo pensare che sia così fragile? Sì, forse, se essa è concepita fragilmente nel nostro pensiero.
Non dovremmo polarizzarci, dovremmo sorvegliare tutti insieme su questa democrazia. Anche perché nel conflitto tra Stato e individuo, l’individuo non può che uscirne malconcio…
Ma neanche di questo sono così sicura, e temo che ormai, mentre scrivo, il conflitto sia già deflagrato e che i soldati siano in marcia.

martedì 3 dicembre 2019

LE VOLTE CHE HO CREDUTO DI STARE PER MORIRE



Il giardino dei ciliegi di Strehler
E mentre computavo nel buio il contorno di uno dei due tizi col machete, e particolarmente il contorno del machete...
E mentre le mie orecchie ricevevano il grido di allarme proveniente dal mio compare, nella forma specifica: “Ha un coltello, scappa!”, che si riferiva però al primo tizio col machete, che fronteggiava lui, senza essersi avveduto del secondo tizio col machete che fronteggiava me…
...E mentre il mio cervello elaborava la doppia informazione del machete e del grido, traducendola in un impulso che suona più o meno: “Girati e corri, adesso!” che le gambe eseguivano solo in parte, perché erano metà gambe e metà paura, facendomi cadere a terra faccia in giù...
...E mentre il mio pensiero, nella resa della schiena al cielo, non andava al padre, vedovo di fresco che perdeva in pochi mesi la moglie e la figlia, e non andava alla creatura in grembo (anche perché in effetti non sapevo ancora di averla in grembo), bensì si rattrappiva, il pensiero, in un banale stupore, esprimibile più o meno nella domanda: “Succede così?”
…E mentre il corpo incredulo si volgeva al solo dilemma del corpo, riassumibile più o meno nell’espressione “Farà male?”

E mentre le stelle valutavano in apnea quel mio tempo...
...Un nugolo mai meglio identificato di donne latine (da me poi interiorizzato attraverso una figura retorica che lo ha trasformato in “le mamme”) uscivano dalle porte delle case di Camaguey, Cuba, urlanti indignazione all’indirizzo dei due tizi armati, ricacciandoli non so per quale portento nel mistero dei vicoli da cui erano emersi.

Ma a parte quella volta, e a parte quando un tizio alto e freddo, a parte quando Clint Eastwood è salito dal lato passeggero sulla mia macchina e mi ha detto: “Dille di scendere”, riferendosi a mia figlia, di allora 5 anni, che avevo appena legato sul suo seggiolino di dietro... congedandosi però, infine, anche lui rapidamente, assurdamente, e per ragioni imponderabili almeno quanto quelle della sua comparsa...


A parte quella volta, e a parte la volta che forse davvero sono stata a un soffio, quando un’enorme auto mi investiva caricandomi sul cofano, da cui con la testa sfondavo il parabrezza, ed erano i parenti più stretti, affacciandosi al balcone, a mettere a fuoco la visione di una specie di pupazzo esanime a bordo strada, senza scarpe e con la gente intorno, credendomi probabilmente spacciata (quella volta però non ebbi il tempo di pensarci)…

A parte poi, ovviamente, tutte quelle volte di categoria inferiore, del tipo “credevo di annegare” o “in macchina con un pazzo”.

E a parte tutte le volte che mi addormento con la paura di morire, o che mi ci sveglio, o che mi ci faccio un pomeriggio.

A parte queste cose, che vanno tutte bene per fare colpo alle cene, la volta più spaventosa che ho creduto di stare per morire è stata quando mi sono precipitata dal medico in lacrime, implorando: “Ho una figlia di 10 anni, è troppo presto!”


Mi spiego meglio. Da qualche tempo avevo una cosa, non so come devo chiamarla, una piccola pallina, indolore, sulla lingua. Ovviamente il fantasma di un tumore c’era già da settimane, a volte era un fantasma 'malattia più decesso', e altre volte quello 'malattia più guarigione'.


Ma il primo caso, sotto forma di fantasia, al massimo mi aveva spinta a elucubrare, esteticamente, che forse era venuta la mia ora, che forse c’era un motivo per cui era giusto che io me ne andassi prima del previsto, ad esempio che mia figlia potesse trovare se stessa in assenza di una mamma ingombrante, e che infatti per questo motivo, fatalmente, suo padre si stesse avvicinando a una donna splendida, perché fosse lei in futuro a farle da madre.

O forse il motivo era che così quel che scrivo sarebbe stato letto da più persone, avide di tragedia e dolore...

Altre volte il fantasma si presentava a me con un lieto fine: se mai fosse stato tumore, l’avrei combattuto e avrei vinto, sarei sopravvissuta, e questo mi stava accadendo come per una sorta di upgrade della mia anima. (E anche questo sarebbe andato bene per le cene).

Il fantasma era lì dicevo, e io avevo appuntamento dal medico qualche giorno dopo, un mercoledì.
Ma venne la notte, e con lei, più sottile, uno spettro che portava non proprio fantasia ma certezza, nella versione malattia più decesso.

Credevo che il risveglio e lo scorrere della giornata avrebbero sopito le paure che si gonfiano al buio, ma invece la mattinata era un salendo di palpitazioni sudaticce da ansia e umidori d’occhi che imbucavano in gola un terrore più che un timore, divorante, fino a una sentenza di morte, di una evidenza mai capita prima (salvo quando scesi in farmacia a comprare il  test di gravidanza ben sapendo, fulmineamente, di essere incinta, ma non era brutto).

Davanti alla scrivania della segretaria dalla mia dottoressa, senza appuntamento, dissi che non potevo aspettare. Ero ormai inconsolabile, il volto di una verità.

Ho una dottoressa dolce e simpatica, che mi ha presa sul serio, forse ero molto convincente, e mi ha visitata con attenzione. Alla fine, ha detto, non sto per morire.

Allora perché racconto questo episodio denunciandomi così squisitamente psicotica?
Credo che sia, intanto, per gigioneggiare, magari infilandoci qualcosa tipo un machete di Damocle”, che sarebbe effettivamente una battuta bruttissima.

Ma anche perché quello che ho vissuto in quelle ore, cioè l’incontro con la cosa, la cosa intendo, la cosa che puoi toccare, la cosa che comunque un giorno prima o poi arriverà e alla fine della mattinata sarà condanna e non assoluzione, beh, lo strizzabudella che ti fa la cosa, giustifica qualsiasi lamentela, violenza, mal di vivere, nevrosi o malessere che ci portiamo nello zainetto di sassi della quotidianità e che qua e là vomitiamo in modo deforme.
Qualsiasi mostro sia nato in noi, individui o umanità al completo, è giustificato dalla presenza della cosa sulla scena.

Ma soprattutto lo racconto perché è successa una cosa importante, ed è che solo lì, finalmente, ho riconosciuto quel suono, un suono imperscrutabile che cerco di capire da quando l'ho letto in Cechov molti anni fa, il suono di una corda di violino che si spezza in lontananza.

Ciao cosa, tra me e te hai vinto tu in partenza, grazie di essere restata alla larga fino ad oggi.


martedì 5 novembre 2019

APOTEOSI





Avanti, chi non l'ha mai fatto di immaginarsi il proprio funerale?

Il posto.
Non ho nulla in contrario con il costume di utilizzare le chiese in caso di morte, le chiese sono belle e mistiche. Perciò va bene una chiesa, bella, grande, magari medievale, meglio se paleocristiana, fondata su un tempio antico, con enormi spazi per piangere.
Ma niente messa. Solo la liturgia laica del rimpianto, casomai l'odore dell'incenso, così pagano.
Non voglio un altro Gesù al mio funerale, Gesù quel giorno lo faccio io.

Se poi volete un prete, uno sciamano, un officiante qualsiasi, che almeno sia un tipo solenne, senza consolazione. Sappia, lui o lei, che ogni religione è per me un affascinante, quanto ridondante, pezzo di teatro.
Perciò, se venisse fuori che a queste condizioni una chiesa non ce la danno, allora si trovi un posto grande, perché sarete tanti.

La musica. Fate cantare un coro di voci bianche. Un coro di uomini invece canterà Angelita di Anzio dei Marcelos Ferial. Se, senza smettere di piangere, qualcuno non potesse trattenersi dall'unirsi al coro, lo faccia in maniera intonata.

Si pianga, si pianga pure molto. Dal fondo della chiesa, dalle prime file, da quelli che fumano fuori, con gli occhiali da sole, da tutti si liberi un pianto delicato, di suoni bassi, diffuso e limpido. I singhiozzi siano appesi all'aria, uno ogni tanto, a ricordare senza coprire, a punteggiare l'armonia del mio funerale.

Si leggano poesie: il Prometeo di Goethe, La sigaretta di Laforgue, la traduzione che dice “quanto a quellaltro, bubbole". Altre potete sceglierne, ma mi raccomando, niente robaccia alla Neruda. Eventualmente meglio la prosa, ad esempio la pagina in cui Humbert Humbert si accorge dell'assenza della voce di Lolita dal coro di voci di bambine: “e allora capii...” e bla bla bla, un certo passaggio di Salinger su come dormono i bambini, il finale dell'isola di Arturo, qualche delirio del Cyrano…

Una mia foto sarà il punto di fuga, la più retorica che trovate, usate photoshop, fatemi ineffabilmente bella ma non solo, la mia immagine dovrà essere tragicamente legata ai due mondi, mostrare la vita e indicare la morte, sfuggire in un altrove incomprensibile. Si dovrà vedere la guaritrice che è dovuta morire per indicarvi la via.

Nel nutrito settore fidanzati vorrei sapere mutile quelle vite, sentire il crepitio dei pezzi di cuore che appassiscono.
Il mio amore invece sarà in prima fila, sostenuto dai cari, manifestamente disperato, di quel dolore del pentimento e del rimorso, in cui vivrà in eterno perché egli è un uomo, e avrà di certo fatto mancare qualcosa. Assuma perciò tutto il compito del vedovo inconsolabile.

Si dicano di me parole, le si usino come vanno usate, anche per mentire casomai, che non si dica male, o guai, vi perseguiterò per gli anni che vi restano. Che si parli di me come di una spia di luce nell'oscurità. Irripetibile, unico, insostituibile pezzo di carne.
Piuttosto, se non sapete scrivere, leggete roba mia o di altri.

La mia bara la porteranno l'amico, l'amore, il fratello… il quarto va trovato. Si faccia avanti una schiera di pretendenti al quarto posto.
E così vi si straccerà il cuore, al vederla uscire claudicante, portata senza perizia ma solo con muscoli e nervi, portata come un dono. Vi regalo la mia morte.

E infine sia sepoltura. Voglio una lapide, l'epitaffio sarà ancora Goethe, questa volta dal Faust: E se nel dolore l'uomo ammutolisce, un Dio a me ha concesso di dire quanto soffro.
Mettetemi con loro, gli antenati, oppure create un luogo in cui andremo tutti, cari amici. Ma voglio un cimitero dove portare fiori e inginocchiarsi a piangere, non la mensola di un camino.
Ci sarà quel rumore di pietra, di cazzuola per la calce, assisterete ad ogni movimento.
Sarete increduli ma non di sasso, vi sto guardando uno per uno e vi saluto con molto rammarico.

Infine sappiate che se invece vorrete andare avanti voi, io scriverò per voi belle parole, tali che voi non sareste mai in grado di scrivere per me, quindi forse conviene a tutti.
Io vi seppellisco volentieri tutti quanti, ché di tanto protagonismo non ho fretta.

RIP






lunedì 14 ottobre 2019

LA COMPARSA


Un genitore, soprattutto uno che abbia avuto un solo figlio, soprattutto uno che abbia atteso la crescita del figlio con impazienza perché sapeva di non essere proprio un asso coi bebè, un genitore non può non accorgersi all’improvviso di quanto sia veloce l’infanzia. E che, niente da fare, poi è perduta.


Un genitore, una madre o un padre, persino uno che abbia soppesato e ripensato ogni passo, persino uno che nonostante questo sia caduto in ciascuno degli errori possibili, persino uno che il più delle volte sia restato tremebondo a guardare, non può non protendere il braccio per tentare ancora una volta di rimuovere il fantasma di un ostacolo, con la gestualità patetica e imprecisa di una comparsa.

Un genitore, che sia la madre perfetta o soltanto quella abbastanza buona, non può in nessun modo perdonarsi quel tempo che passa sul corpo del figlio. Anche uno che molti giorni della propria vita li abbia trascorsi pensando “domani” o “altrove”, non può non curvarsi sulle orme più piccole, non può non cercare nelle fibre di una figlia i segreti che l’attendono, non può non provare a fermarle nei giorni passati.

Un genitore non può non vedere il momento in cui sta accadendo che l’infanzia si perde, e quel che è andato è andato, e come la sua, la vita del figlio è già in corsa, si fa, si fa e non si disfa.

E così alla fine non potrà non accorgersi di quanto avere messo al mondo un bambino, una bambina, e aver vissuto insieme a lei la sua infanzia come se fosse una circostanza assoluta, sia stato solo un infimo passaggio, per quanto cruciale, della vita di quella bambina.


lunedì 30 settembre 2019

Per l’ambiente a colpi di colpe


Quello che voglio dire è che poi, alla fine, io non riesco a sentirmi colpevole.

Bruciando praticamente in questo sacro fuoco ambientalista, tutti i momenti mi sento dire che io non sono disposta a cambiare il mio stile di vita. E che quindi tutto questo è anche colpa mia. No?
Ok. Mettiamo che sia vero che non voglio cambiare, mettiamo che sia vero che questo implica che sia colpa mia, e che sia vero che io non conoscessi già le mie colpe… Allora vediamo come cambiare questo stile di vita.

Dunque, premetto che io mangio la carne, ma io non mangio la carne soltanto perché mi piace, bensì anche perché nel turbinio frenetico del logorio della vita quotidiana nella città tentacolare anche detta giungla d’asfalto, di solito, ai pasti, io, in suddette circostanze frenetiche della logorante quotidianità, agguanto e azzanno qualunque cosa sia veloce da conquistare e rendere aggredibile dalle mie fauci.

È l’unica cosa che posso fare, e non so come fare a cambiarla. Non è che non voglia, proprio non lo so fare e non ho neppure il tempo di imparare a farlo, perché nella mia vita forsennata tentacolare c’è spazio per poche cose oltre a produrre reddito, mangiare, accudire prole, schiantarsi di stanchezza nel letto manco rifatto. Per carità, ognuno ha le sue priorità, io ad esempio adesso sto qui a scrivere invece di preparare la cena o compilare un elenco di marche da boicottare, probabilmente è una priorità tutta distorta, ma non è che mi puoi rifare tutta da capo.

Non sto cercando di deresponsabilizzarmi, non mi piace affatto inquinare, davvero, ma non conosco un altro modo di vivere, o di sopravvivere.
E poi a me non fanno niente bene le colpe, per colpa delle colpe ho capitalizzato almeno 500 sedute dallo psicanalista, totalizzando così almeno 1000 viaggi tra andate e ritorni in auto, emettendo perciò gas serra.

Sto dicendo che ci sono cose di cui noi nati nella parte di mondo fortunata-privilegiata-predatrice cinica-superficiale-consumistica-selvaggiocapitalistica-compulsiva-narcisistica e, non dimentichiamolo, dell’apparire, ci sono cose di cui non siamo strettamente “colpevoli”.
Ne siamo fautori forse.
Abbiamo, da bravi animaletti, risposto agli stimoli, e imparato, inconsapevoli, che ci piace d’inverno entrare in una casa calda e d’estate in un cinema fresco, che con la macchina sotto il culo facciamo molte più cose, nel logorio della giungla frenetica d’asfalto, di quante riusciremmo a farne coi mezzi, a piedi, o con la bici.
Perché fare cose è per noi sopravvivenza, per noi è "fare o morte".

La bici. Io l’ho usata tanto la bici nella giungla tentacolare d’asfalto, era il mio orgoglio fare tutto con la bici, vento e neve, figlia piccola... Poi ho preso il cane, e ci ho provato, con la bici, col cane, con la figlia, che nel frattempo era diventata meno piccola, ma per strada mi urlavano pazza e io sono influenzabile in modo paradossale. E ho preso una macchina, è minuscola, ma sì, inquina. Avere il cane però dovrebbe essere un’attenuante perché questo fa di me un’amante degli animali e, per sineddoche, della natura. Alla fine mi ci sono anche affezionata a ‘sto povero cane d’asfalto.
Questo per dire, anzi confessare, che uso la macchina, che ne ho bisogno, che non so come farei senza macchina nella mia vita frenetica logorata.

E c’è questa piaga della plastica. Io la divido, la riciclo, la sminuzzo e la schiaccio nel modo che mi hanno spiegato, ma quello che acquisto è là dentro, a volte in confezioni inespugnabili, e quello che acquisto non è sempre inutile. Cerco di essere parca, da tempi non sospetti, già negli anni ‘80 dividevo i fazzoletti di carta a metà per non sprecare la suddetta carta. Ma più invecchio e più le frustrazioni mi abbrutiscono e lo ammetto, a volte voglio degli oggetti per alleggerire le frustrazioni.
Tra l’altro le frustrazioni mi mandano dritta dallo psicologo, altra benzina nell’aere.
Ma sono morigerata, davvero, chiedete a chiunque, a volte non tiro neanche l’acqua, pochissime lavatrici, biasimo assoluto dell’aria condizionata nella giungla d’asfalto. Uso la quantità di carta igienica strettamente necessaria, quando vado al mare sono praticamente a impatto zero, la mia casa è un monumento al riutilizzo, tengo le batterie scariche, le lampadine fulminate, tutta quell’elettronica scaduta, per poi portarla nei luoghi atti allo smaltimento…

C’è questa plastica, dicevamo, i libri a scuola li vogliono foderati, se gli metti un succo nel vetro guai, è vietatissimo portare del vetro a scuola, potrebbe accadere una tragedia immane. Faccio la differenziata in modo maniacale da anni, divido gli imballaggi nelle loro componenti... “Però gli imballaggi!” mi direte. Lo so, lo so, ma non ho tempo, nel logorio d’asfalto, per recarmi con il mio flacone a farmelo riempire di detersivo di canapa, non ho tempo e non riesco a ricordarmi il flacone quando esco di casa, nel turbinio.
Io ci ho provato a cambiare, lo giuro, dovete credermi.

Io poi mi porto addosso questa macchia del cane, che pure essendo amante della natura, non è a impatto zero perché la cacca va raccolta coi sacchetti di plastica. Ho fatto un calcolo: se comprassi quelli biodegradabili, quelli che sono cari e molto porosi e ti lasciano le mani che puzzano di merda, ebbene, ipotizzando che il mio cane viva altri 10 anni, quando la malabestia stirerà le zampe avrò speso circa 700 euro di più che comprando quelli normali. Allora la domanda è: 700 euro è di più o di meno del costo ecologico, tradotto in denaro, della plastica prodotta per raccogliere gli scarti del mio cane puzzone? È di più o di meno di quanto potrebbe costare riparare ecologicamente al danno?
E se con quei 700 euro io mi pagassi dieci sedute extra dallo psicanalista, che mi fanno tanto bene all’animuccia mia bella liberandomi delle costose e inquinanti colpe? E magari finisce che mi compro meno cose perché sono più serena e non mi devo assolutamente prontamente e impellentemente consolare con un microventilatore a manovella tutto in plastica?
Quindi abbiamo uno scatolone di sottilissimi sacchettini di plastica disperso in mare in dieci anni contro un miniventilatore a manovella. Forse se ci metto sul piatto che alle sedute extra potrei andarci con la metropolitana… certo che i biglietti della metropolitana, quelli di carta… Chissà quanti se ne producono tutti i giorni?
Ok, è vero, in realtà lo si fa per diffondere una cultura. Ma se poi quello che produce i sacchetti biodegradabili vende armi?
È come il gioco delle tre carte, non se ne viene a capo. È lo stesso con l’alimentazione.

L’alimentazione etica. La famosa carne che, se messa in tavola ben cotta o al sangue, sta distruggendo il pianeta.
Dunque, apriamo questo capitolo spaventoso.
Nel mio personale e solitario dramma serale del Che cosa cucino, di sano ma nutriente, di etico, e che piaccia ai più? mi dicono quinoa. Gesù, ma come diavolo è fatta codesta quinoa? Al supermercato (io è lì che faccio la spesa, nella frenetica città tentacolare) come riconoscerla? Come accidenti si cucinerà questa quinoa? Ma soprattutto, è vero che tutto il trambusto per la quinoa di noi privilegiati sfruttatori che ci siamo all’improvviso accorti della quinoa, sta impoverendo in modo tragico le popolazioni della Bolivia e del Perù provocando drammi sociali inimmaginabili? È vero che gli anacardi li chiamano “insanguinati” perché le indiane passano almeno 12 ore consecutive al giorno a romperne i durissimi gusci soffrendo come bestie e guai a lamentarsi perché sennò son punizioni anche letali? E gli avocado non stanno forse devastando il sistema idrogeologico di qualche zona centroamericana che adesso non sa più dove troverà l’acqua per le città? O forse erano gli avocado ad essere insanguinati? Che cazzo. Le tre carte.

Io poi ho un grosso problema con l’alimentazione sana, lo riconosco, non mi piace, dirò di più, detesto persino la frutta, più o meno tutta a parte le banane che probabilmente non sono proprio frutta. Una volta ogni sei mesi mi accorgo del banco frutta e allora compro 4 mele, misteriose sfere che decorano il mio tavolo indifferenti e impassibili per i sei mesi seguenti. Poi, uno spicchio alla figlia e uno al cane, mezza mela ogni tanto la facciamo fuori.
Sono una criminale, lo so, ma pietà, prendetemi come una malata incapace a trangugiare una cosa fredda, tendenzialmente insapore, solida, ma che t’inonda la bocca d'acqua.
Vai dai contadini, mi si dirà, ma davvero, credetemi, non mi piace lo stesso.
Però quando nel turbinio della vita d’asfalto mi sento abbastanza in colpa per lo scioglimento dei ghiacciai, degli uccelli che scompaiono, delle popolazioni schiave, per punirmi io mangio qualche acino d’uva. Ma scommetto che quella senza semi non vale.

L’altro punto su cui devo fare outing è il riscaldamento, non quello globale, quello di casa mia, e qua sono davvero tra gli imperdonabili. Ho freddo, non c’è altro modo di dirlo, tanto freddo. Mi copro, come mi copro io non si copre nessuno, metto anche la calzamaglia sotto i pantaloni, ma niente, appena il termostato va sotto i 22 io ho i geloni. Lavoro a casa, seduta a un pc, non uso calorie neppure per fare ciao con la manina a un collega, nel mio isolamento, che è comunque turbinante d’asfalto. E arriva un punto che non riesco a usare bene le dita sulla tastiera per la rigidità. Dicono sia anche la stanchezza, dormo poco, sono i sensi di colpa. Quindi se voi mi colpevolizzate, io produco clorofluorocarburi. Io chiedo scusa sinceramente a tutti, proverò con 21 e mezzo, ma non so se ce la faccio.
Forse, se facessi un po’ di sport, attiverei la circolazione o qualcosa di altrettanto sconosciuto che è nel mio organismo e soffrirei di meno il freddo, ma il tapis roulant richiede elettricità, che va prodotta emettendo gas serra. E se vado al parco a correre, che è pure più bello e fa tanto America? E così ci porto pure il cane animalista classe A+. Ma come ci vado? Col tram? A piedi? Non ho tempo, nella giungla frenetica, arrivata là dovrei già tornare indietro, quindi ci vado con la macchina. E allora tanto vale che riscaldi la casa.
E comunque il mio ginocchio sinistro non sta bene, e se devo fare un’altra ecografia perché si infiamma di nuovo, è altra elettricità che se ne va, oltre al ricorso, in fondo evitabile, alla sanità pubblica. Che stampa un sacco di fogliacci, tra l’altro.

Queste non sono opinioni, me ne rendo conto, e io non voglio scaricarmi la coscienza, se mai ne ho una, però c’è un punto d’ombra che non riesco a leggere chiaramente in questo fervore ambientalista. Credo, l’ho detto, che riguardi il mio fastidio per le colpevolizzazioni.

E c’è un’altra cosa, ma non so se dirla, non so se la so dire e se mi verrà perdonata. Credo molto profondamente, davvero davvero convintamente, che siamo una specie quasi come le altre, che ha creato il suo destino, va detto, fortunato completamente a casaccio e preda di una sola manciata di istinti: perpetuare la specie, limitare il dolore dei bisogni, soddisfare i desideri. Credo che come tutte le specie, siamo di passaggio, e che come tutte le specie, beh, abbiamo le nostre vittime e cruente ingiustizie. E non mi fa piacere tutto il dolore del mondo, e tutta la nostalgia dell’essere di passaggio, ma temo sia la natura. Siamo prodotti della natura e la natura ci ha fatti così, meno morali di quando sognassimo. La natura comunque di noi se ne frega, e non sarà il declinare delle condizioni che rendono possibile la vita umana a farla scomparire, non è detto neppure che non ci adatteremo. Certo l’evoluzione richiede un tributo.

Comunque, gente d’asfalto, contate su di me, farò del mio meglio per sopravvivere e per far sopravvivere. Io per me metterei leggi durissime e spietate in favore dell’ambiente, perché purtroppo è vero che senza la politica l’ambientalismo è un argomento per le amiche di yoga.
Io nel mio piccolo non bevo certo l’acqua in bottiglia. Posso anche andare sulla fiducia e comprare quei maledetti costosissimi e porosi sacchetti biodegradabili per il cane triste. 

Solo non so quanto sia furbo giocare ai Savonarola tra di noi gente d’asfalto.
Perché quando tutto questo, Greta compresa, verrà digerito dal grande digestore che tutto digerisce e tutto rende organico, saremo nello stesso smog del disgelo degli oceani di plastica e isole di spazzatura del pianeta surriscaldato, ma con un po’ più di odio.

giovedì 12 settembre 2019

BUON COMPLEANNO




Lascia che ti misuri
l’altezza, il peso, l’amore.
Dieci anni davvero? Eccoti lì, dieci anni.

Buon compleanno bambina,
buon compleanno regina
danzatrice cantante pittrice gattara,
addestratrice
di cani, lumache, paguri, fantasmi.

Non l’avevo capito,
quando mi guardavi con gli occhi notturni
più fondi del tempo,
che la tua testa avrebbe toccato il mio mento
e ci saremmo guardate negli occhi così
come due
non più una.
Auguri a te
che non vuoi parole ma cose
da fare, vedere, cose da giocare.

Vorrei che fosse tutto lì,
un balletto
tra i miei e i tuoi dieci anni.
Dieci anni bambina,
che vuoi per regalo? la bici? lo zaino? il vestito che ami?
Il mio potere si ferma qui,
non ti posso regalare
le promesse che ti ho fatto:
andrà tutto bene, sempre.
Perdona
una madre che non lo sa fare.

Tieni, prendi tutto il mio cuore
e poi lascialo giù quando devi volare.

venerdì 27 aprile 2018

LA MAESTRA MI PIACCHIAVA





La mia maestra menava sodo, credo che mi abbia guastato un po’ la festa durante quegli anni di scuola, che mi abbia tolto un po’ di allegria.
Anche il dentista non era un simpaticone, non faceva l’anestesia, per dirne una. Ti guardava morale, come a dire “Non avrai mica paura?” Eh no, se me lo chiedi così vuol dire che no, paura non si può avere.

La maestra ce l’aveva soprattutto con Salvatore e con Mauro, che sono ovviamente pseudonimi, ma io li ricordo bene. Salvatore aveva una dozzina di fratelli, una madre sempre incinta e qualche volta un occhio nero.
Mauro aveva gli occhiali spessi, un’aria venuta male, e non so che altro. Loro le prendevano di santa ragione, sotto i nostri occhi oppure fuori della classe, mentre noi ascoltavamo i rumori. Scuoteva per i capelli il tuo vicino di banco con una furia inusitata urlando “Ma diiii!!!” mentre tu speravi che non toccasse mai a te.

Sono stata una bambina diligente, timida, remissiva. Probabilmente è stato per sopravvivenza. Solo a guardarmi in faccia mi davi un bel voto.

Poi c’è stato il liceo. La scelta del classico seguiva l’innamoramento per i poeti, ma non credo che mi piacesse poi tanto studiare, imparare sì, allo spasmo, ma studiare no, eppure passavo tutte quelle ore seduta con i libri davanti fantasticando d’altro e senza capire granché di quello che c’era scritto.
Non sapevo nulla di nulla, nulla di me e del mondo.
Ma ho avuto fortuna e ho incontrato qualche buon maestro che ha potuto seminare nel mio molliccio.

All’università ho perso un sacco di tempo senza capire che quel tempo e quelle possibilità non sarebbero tornati. Ma qualche piccolo seme cominciava a germogliare.

Oggi so una minima parte di quello che ho studiato nella mia vita. Mi costa ancora molta fatica leggere, se andassi a scuola oggi avrei con me una bella certificazione di dislessia e una di disturbo dell’attenzione, non ho dubbi.

Quindi è solo per una serie di fortunati casi che oggi non passa giorno senza che mi riecheggi nella mente qualche verso di poeta, senza che mi faccia una domanda o due, o mi venga di farne ad altri, senza che un’idea provi a fare breccia, che impari qualcosa di nuovo, senza che faccia Ohhh, come i bambini di Povia (o erano piccioni?)

Ma mi è toccato sentirmi spesso a disagio, fare delle gran figure di merda, stare in giostra di continuo attraverso incontri e con mille sconvolgimenti, faticare insomma per recuperare a mio modo quello che mi era sfuggito per colpa della maestra, del dentista, delle mie fragilità non riconosciute.

Ecco perché non sarò certo io a rimpiangere i bei tempi andati, oggi che è mia figlia ad andare a scuola.
Ecco perché non sopporto più questi tromboni che sentenziano che i compiti non hanno mai ucciso nessuno, che ai loro tempi le prendevano prima a scuola e poi a casa gli davano il resto. Ma vaffanculo.

Ma un rammarico ce l’ho, è il futuro che non c’è stato.
È il nulla che si è sostituito al decadere di quella scuola incontestabile.

Vedo bambini tutti i giorni, sembrano felici.
Ma non riesco a togliermi dalla testa quell’aria che hanno, quella di fare ciò che tutti fanno, farlo come tutti lo fanno. E vedo imparare a scrivere leggere e contare, una gran soddisfazione, soprattutto se lo fai un pochino meglio degli altri.

Quel che vedo è la costruzione laboriosa, capillare, intensiva, di un sistema di dogmi.
A contenerli una cornice di ferro che, pioggia o neve, sole o vento, fiori o rami, è un rigido calendario settimanale.
Sembra un po’ che qualcuno gli abbia detto che sapere è sapere cose. Che tutto è misurabile e davanti a nulla si resta a bocca aperta.

Vedo che crescere è stracrescere. Vedo potenziamenti di inglese, corsi di scacchi, di cinese, di solfeggio, tutto molto intensivo in nome di un impegno che è disimpegno.
Perché l’impegno della scelta non attecchisce in menti sempre concentrate su qualcosa.

Mi chiedo se quello che non è riuscito a fare Hitler non lo stiamo facendo noi... E non mi riferisco alla campagna di Russia.

Ecco, io vorrei campionati di distrazione, elogi degli errori e allegri roghi per questi libri scolastici scritti dal marketing editoriale. Vorrei lezioni di noia, di stare in coda alla posta.
Insopportabilmente naif e fricchettone, è vero, ma a guardar bene di solito i fricchettoni hanno figli piuttosto concreti che parlano di soldi, che gli occhi li tengono sul banco, con un elenco di impegni troppo fitto per stare in coda alla posta e che non cambieranno il mondo.

Bene figlia, lascia perdere, guarda fuori della finestra, è tutto lì raccolto nel pulviscolo sospeso tra te e il mondo. Trova quel pulviscolo trasparente.
Trova un giorno un vero maestro, non un professore, un maestro grande dico, non qualcuno che ti istruisca o ti guidi. Solo qualcuno o qualcosa che ti faccia tornare la curiosità che intanto ti avranno tolto.