mercoledì 6 luglio 2016


PUNTATA 5


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C’erano in circolazione mamme di ogni tipo, quelle che la cioccolata guai, quelle che ne avevano tre e ne volevano quattro, quelle che tv tutto il giorno e quelle senza la tv, quelle non correre che cadi, che le vedevi balzare sulla panchina, quelle che ai giardini infilavano gli occhiali scuri e si mettevano a leggere. Quelle di quarant’anni, quelle che lascialo piangere, quelle al telefono con mamma, e quelle che stavano allattando figli di due anni, quelle che sembravano gazzelle, e quelle che non ce la facevano, col mal di schiena che gli si piantava in mezzo agli occhi, tra le ciglia, con una ruga profonda.

Solo oggi ho capito che tutte quelle cose che queste mamme dicevano non valevano niente, che cosa fosse meglio mangiare, quanti cartoni al giorno, se dovessero dormire da soli o con i genitori.
Tutte stronzate, una peggio dell’altra.

Ognuna di loro stava solo cercando di alleviare i propri dolori. L’aver partorito, che hanno un bel dire che si dimentica, ma non è così, lo si ricorda tutta la vita, tant’è che appena possiamo tutte giù col racconto del nostro parto. Chi in piedi, chi seduta, chi in acqua, in taxi...
L’aver allattato, tenuto in braccio, consolato. Questa sofferenza andava condivisa, alleviata, scaricata sulla coscienza delle altre, lì ai giardini.
Chissà perché le donne si odiano a tal punto.

C’erano anche nonne, ai giardini, rapaci pronti a tutto in un mondo nemico.
Per loro i bambini, ancora neonati, prendevano i “vizietti”, erano buoni e cattivi, e comunque sarebbero stati per sempre di vetro. Li vedevi arrivare nei passeggini, nelle carrozzine, negli ovetti, e lì sarebbero restati.
Anche le nonne in fondo facevano quello che potevano, ma con più protervia. Anche loro avevano idee, c’erano quelle rigide, niente rutti a tavola, e si mangia tutto, e quelle morbide, se non vuoi la carne ti dò il panettone, purché mangi. 
Per lo più pensavano a nutrire, non sapevano né giocare né insegnare, erano più stressate delle loro figlie.
Nulla di quelle antiche nonne che raccontavano fiabe russe, e facevano vecchi giochi con le mani. Del resto queste qui non erano che le figlie delle nostre nonne, erano le nuove nonne come noi eravamo le nuove mamme.

E anche in loro quel dolore taciturno, vietato più d’ogni altro, si sfogava in qualche racconto violento, qualcosa del passato, una conoscente col figlio morto chissà come, un ricordo truce di fame e botte, scaricare un’angoscia atavica sulla prima passante sotto mano.

Perché?
Mi sono fatta l’idea che sia perché il mondo sa che il dolore di ciascuno è unico, e non fa che cercare di rispettarlo, alleviarlo, curarlo, ma non ammette che lo sia quello delle madri.
No, quello è un dolore soltanto, uniforme, per il mondo, un solo grande pentolone di sofferenza dalla faccia gentile, nulla su cui ci sia molto da scoprire.

E così, quel che noi sappiamo, da madri, quel che conosciamo nei nostri incubi, quel che ancora tratteniamo nelle notti dei nostri parti, è solo nostro, e fuoriesce come una lava appiccicosa dalla nostra bocca, senza che lo vogliamo.
Il mondo continua ad amare, venerare, le madri coraggio. È il solo modo per non vedere il vero dolore di essere madre.


...CONTINUA




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